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DIETRO L'ORNA

Il nome di lui, Javed.

Il nome di lei, invece, Kakoli.

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Siamo entrambi seduti sul lucido pavimento azzurro, quando un intenso raggio di luce attraversa la finestra e taglia la stanza in due, separando le nostre figure. Lei è lì, cerca di nascondersi nel suo lato di oscurità, ma riesco a scorgere il suo sguardo e leggervi le sue emozioni dietro il fumo di una sigaretta al mentolo. Sembra a suo agio immersa nell’ombra; probabilmente è abituata a proteggere quel corpo da un mondo che l’ha stereotipata come un errore della natura. Personalmente ho smesso di fumare molto tempo fa, ma decido di accendermi una sigaretta. Cerco di farle compagnia sperando di avvicinarmi a lei.

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“Ho dato alla luce un figlio ed ora mi ritrovo con una figlia”, esclamò la madre quando Javed espresse il desiderio di diventare donna.

 

“Guardavo continuamente giù in basso, tra le gambe, e mi dicevo che non aveva senso. Quella cosa non aveva una connessione con l’immagine che avevo nella testa. Continuavo a dire a me stessa che non era giusto che fosse il mio corpo a decidere come doveva essere il mio futuro, che il mio colore doveva essere l’azzurro, i miei giocattoli le macchinine e la mazza da cricket, che dovevo portare i pantaloni. Non ne potevo più di recitare la parte da ragazzo”.

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Aveva paura che Dio l’avrebbe abbandonata.

 

“Contavo i monsoni. Sembrava tutto troppo lontano, irraggiungibile. Non esisteva nulla che potesse nascondere questo vuoto”.

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Era ancora adolescente quando si rese conto che qualcosa era diverso in lei.

Era attratta dagli uomini e si truccava allo specchio.

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“Quando avevo cinque o sei anni mi intrufolavo nella stanza di mia sorella e indossavo di nascosto i suoi vestiti, riempivo il suo reggiseno con un paio di calzini e sognavo di essere una bella donna. Soffrivo ogni volta che le persone mi chiamavano col mio vero nome. La mia adolescenza è stata un vortice tra depressione e odio per via del mio corpo. Al solo pensiero del mio aspetto fisico avevo attacchi di panico: le mie spalle, le braccia, la barba e i peli sul petto non riflettevano le dimensioni del mio essere. Era terribile convivere con la mia pelle, così coprivo il mio corpo con abiti da donna. Mi faceva star bene, mi dava sollievo, ma durava solo un istante. Subito dopo provavo vergogna e disgusto. Una ciclica agonia. Il mio aspetto influirà sempre sul modo in cui le persone interagiscono con me”.

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Ha dovuto, poi, affrontare i suoi amici, la sua famiglia e, con loro, un’intera società. La gente la prendeva in giro per il suo modo di parlare. Ci sono voluti alcuni anni per capire che aveva una doppia sessualità. Si sentiva sempre più donna e sempre meno uomo. Nonostante il suo corpo non rispecchiasse se stesso, non si è sottoposto ad alcun intervento chirurgico.

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“Non voglio farlo, ho troppa paura”.

Poi, guardando le nuvole nere che corrono in cielo, aggiunge: “Non sono nata nel corpo sbagliato, sono nata nel mio corpo e basta”.

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Kakoli sogna di ottenere il visto per potersi trasferire a Kolkata, in India. La vita lì è più facile perché esiste una comunità più grande. Sogna di viaggiare per il mondo e lavorare con persone come lei, ma anche di ottenere un vero e proprio lavoro e tornare un giorno nel suo paese.

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Suo padre morì quando aveva 12 anni, sua madre quando ne aveva 20 e da allora ha sempre vissuto per strada con le sue sorelle. Attualmente il loro unico modo per guadagnarsi da vivere è quello di andare per le strade, in mezzo al traffico, per mendicare. A volte danza con il suo gruppo a matrimoni o battesimi. I transgenders, comunemente chiamati variante di genere, transessuali, terzo genere o hijras, affrontano senza sosta sensazioni contrastanti e conflitti emotivi molto intensi. È una condizione psicologicamente e fisicamente traumatica. Esiste un trattamento ormonale che altera il corpo e spesso viene seguito da operazioni per ‘correggere’ gli organi sessuali in un processo chiamato ‘femminilizzazione’.

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