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COSTRUENDO UN NUOVO MONDO

Il sole sta per spuntare all’orizzonte. Spesse nubi librano all’orizzonte sopra alti e snelli camini. Il fumo che ne esce è denso, forte, nero. Sembrano pronti a sparare palle di cannone. Poi ti avvicini sempre di più fino a quando cominci a scorgerli tra la polvere rossa. Se non fosse per le scie degli aerei dipinte nel cielo, i cavi elettrici che corrono lungo i pali di bambù e gli echi della chiamata alla preghiera del mattino, si potrebbe avere la sensazione di vivere nel passato. Sembra la scena di un secolo andato. Uomini e donne, tra i detriti, camminano in fila su e giù per i gradini come se scalassero una piramide.

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Arrancando sotto il sole tropicale con le schiene piegate in giorni che passano uguali uno all’altro. Camminano a piedi nudi tra il caldo infernale che irradia la fornace, bilanciando enormi pile di mattoni sopra le loro teste per 18, 20 ore al giorno.

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Non c’è nemmeno tempo per mangiare o rinfrescarsi. Trascorrono mesi senza nemmeno vedere il colore della loro pelle. Poiché i lavoratori vengono pagati in base al numero di mattoni che producono e trasportano, il lavoro attira intere famiglie, dal nonno 80enne ai nipoti di pochi anni. Un paio di mani extra, anche se appartengono a dei bambini, sono sempre utili per sfornare milioni di mattoni ed alimentare un boom che non mostra segni di abbattimento. Per ogni carico di mattoni trasportati ricevono fiches in plastica che alla fine della giornata sono scambiate per soldi veri.

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L’ecologicamente fragile Bangladesh, 150 milioni di persone, pari al 50% della popolazione degli Stati Uniti, stipate in un’area grande come Cuba. Una terra costantemente affetta da calamità naturali. Ad ogni stagione cicloni, inondazioni e aumento del livello del mare spingono via migliaia di bengalesi dai loro villaggi. Persone provenienti da ogni angolo del paese si trasferiscono qui per lavorare in una delle migliaia di fabbriche di mattoni, alimentando i loro forni e producendo circa 12 milioni di mattoni all’anno.

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Una migrazione rurale che ha rappresentato negli ultimi 30 anni una crescita del 60% della popolazione della capitale, la quale continua a mostrare una crescita costante, con stime che collocano la popolazione del prossimo 2020 a quasi 21 milioni, mentre nel 2030 può vedere fino a 28 milioni di residenti (come predetto dalla UN).

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Rahima (19), tenendo per mano la sua piccola bimba, posa per la foto insieme al marito e al fratello in una delle fabbriche di mattoni in Baliour, poco distante dalla capitale Dhaka.  Si sono trasferiti qui dal loro villaggio nel 2010 in cerca di opportunità di lavoro e di un migliore standard di vita, unendosi ai mezzo milione di migranti che si riversano nella capitale ogni anno. Non erano più in grado di sopravvivere con l’agricoltura e menzogne e false promesse li hanno attirati fin quì.

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“Sognamo solo una casa decente, il matrimonio che non ho mai potuto permettermi, comprare un televisore, una capra ed essere in grado di dare un’educazione a nostra figlia”.

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Leggende urbane parlano di far fortuna nella grande metropoli, ma una volta giunta qui la gente cade nella trappola di questa ‘schiavitù moderna’. Condannati ad una vita di stenti per ripagare i debiti alle stesse persone che hanno anticipato loro un prestito a tassi usurari per raggiungere il loro sogno, nessuno di loro riuscirà mai a scappare. È una trappola che li ha bloccati qui per sempre in un ciclo di rimborso che può portare ad una servitù indentrata, aggravata da un terribile abuso dei tassi di salario minimi e delle norme sulla salute e sulla sicurezza.

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Nonostante le nuvole di fumo nero e questa paesaggio infernale, la forza e resilienza con la quale queste persone cercano di sopravvivere è una fonte di ispirazione. Rafforzata dal desiderio di una vita più dignitosa, mostrano un esempio straordinario di redenzione dei diritti umani.

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Dhaka, la megalopoli in più rapida crescita al mondo, il futuro è qui e puzza di fumo e carbone. La famiglia di Rahima è solo una goccia del fiume che sta coprendo e ricostruendo il nuovo Bangladesh.

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