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ANGELI NASCOSTI

Si chiama Daulatdia, la città-bordello più grande dell’Asia. Coloratissimi alberi in fiore circondano quella che appare come una piccola e rilassata cittadina, eppure dietro essa si cela una prigione senza fuga. Una gigantesca trappola con oltre duemila baracche in lamiera, ciascuna ospitante una prostituta. Costruito dai britannici durante l’impero coloniale, è ora proprietà di una potente famiglia locale ed è strategicamente collocata tra una stazione ferroviaria ed un porto trafficato.

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Il Bangladesh è uno dei pochi paesi di prevalenza islamica in cui la prostituzione è legale e Daulatdia, tra il consumo di droga e il traffico di esseri umani, è l’epicentro di questo mercato. Il bordello ha le dimensioni di una piccola cittadina, un luogo che vive di vita propria e che dispone di tutto ciò di cui i clienti e le prostitute hanno bisogno: mercati, bische, bar, saloni di bellezza e negozi di ogni genere. Qui si trova di tutto, per cui non vi è necessità di uscire e, in ogni caso, nessuna delle ragazze può andarsene nemmeno. All’interno del bordello esistono gerarchie di potere e regole molto ferree rispetto alla vita al di fuori delle sue mura. Fin da quando ci si mette piede, si è catapultati in una nuova realtà dall’atmosfera festosa. Non è facile avvicinare le ragazze, a volte approcciare loro ed i clienti può essere pericoloso.

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Hanno paura degli stranieri e la maggior parte scappano per proteggere la propria identità. Altre, invece, più curiose ed avventurose, si avvicinano. Mi sfiorano la pelle, i tatuaggi. Sembra non abbiano mai visto la pelle chiara e questi strani disegni impressi sul corpo. Altre ancora posano con fierezza davanti alla macchina fotografica, chiedendomi di renderle famose pubblicando i loro ritratti “in Internet”.

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“Com’è la vita lì fuori?” mi chiedono.

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Le chiamano ‘sex workers’ (‘lavoratrici del sesso’) e ogni giorno saziano l’ardore di circa tremila uomini. All’interno delle piccole capanne in legno e lamiera alleviano la solitudine di turisti, marinai, scaricatori di porto e una miriade di nullafacenti di ogni genere. L’età media delle lavoratrici introdotte in questa micro società è di 14 anni, il che significa che alcune sono anche più giovani. Il loro guadagnano è determinato dalla soddisfazione del cliente e a volte, per alcuni di essi, è normale pensare che la donna non meriti di essere pagata. In un paese di oltre 150 milioni di persone, di cui la metà senza un impiego, molte ragazze vedono la prostituzione come unica possibilità di sopravvivenza. Molte di esse, tuttavia, vengono portate qui con la promessa ingannevole di una vita migliore ed un lavoro ben compensato.

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In altri casi ancora sono le famiglie stesse dei contadini in miseria a vendere le proprie figlie agli intermediari, noti come Dalal, che, a loro volta, le consegnano alla ‘madame’, una figura materna, protettrice e, soprattutto, detentrice dei loro corpi. Una volta saldato il debito, che potrebbe richiedere fino a cinque anni, le giovani donne hanno la facoltà di diventare lavoratrici indipendenti, cominciando, così, a poter selezionare i clienti o ad essere libere di lasciare il bordello.

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La maggior parte di esse, però, sono socialmente stigmatizzate fuori del ghetto a cui appartengono. Sono consapevoli che, una volta uscite, verranno emarginate dalla società, per cui decidono senza troppa scelta di continuare a vivere qui e mantenere senza rischi le loro famiglie grazie ai loro guadagni. Dopo il tramonto le strette strade sono illuminate solo dalla luce lieve che esce dai mini ‘night club’. È il momento perfetto, per me, per uscire allo scoperto. Le ragazze sono impegnate a danzare al ritmo di una musica distorta che esce da vecchi altoparlanti scassati, davanti aiclienti ubriachi. L’uso di ingenti quantità di droghe è consuetudine. La più comune è chiamata ‘Baba’, un derivato della metanfetamina, conosciuta come ‘la droga che fa impazzire’, perché spinge all’aggressività guidando alla follia e bruciando il cervello. La pillola viene tritata e riscaldata su una lastra di alluminio e il fumo che ne viene fuori viene inalato con una cannuccia. I clienti bevono bangla da enormi bottiglie di plastica e si muovono tra le lavoratrici del sesso come a maneggiare uno strumento inanime.

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Le costringono a ballare nude, a compiacere i loro desideri sessuali ed a ballare ancora con una ciclicità che si ripete per tutta la notte, fino al mattino. Ho incontrato Rani in uno di questi vicoli, sola e nascosta nel buio. Stasera non ha avuto fortuna, non l’ha scelta nessun cliente. Non ha paura di me. Parliamo e vuole farmi vedere dove vive. È arrivata a Daulatdia quando aveva 15 anni e da allora non ha mai trovato una via d’uscita.

 

“Fin da quando sono nata tutti mi hanno spiegato che il sesso sarebbe stata la cosa migliore che avrei avuto nella vita e che in questo posto molte persone mi avrebbero amata. Ero felice fino al giorno in cui mi hanno venduta a questa fabbrica. Niente di ciò che mi avevano promesso era vero. Gli uomini vengono qui, piaccio loro e sono contenti di quello che riesco a dare, ma alla fine se ne vanno sempre. Nessuno mi ha mai amato o portata via con se”.

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Sulla pelle pelle i segni indelebili della violenza dei clienti: contusioni, tagli e ustioni. Come tante altre ragazze, Rani fa uso di Oradexon, uno steroide che è stata costretta ad utilizzare per aumentare le forme, rendendole più lisce e sinuose, al fine di apparire più ‘sana’ ed attirare più clienti. Le chiamano ‘pillole delle mucche’, adoperate dagli agricoltori per ingrassare i bovini.

 

“All’inizio mi hanno convinta a prenderle spiegandomi che era una ‘medicina per la salute’, ma non è così. Ogni volta che le ingoio ho crampi ai reni e alle ossa. L’assunzione crea dipendenza, la mia pelle è invecchiata in poco tempo e le forme del mio viso e del mio corpo sono cambiate”.

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La stanza di Rani è piccola ma accogliente. Bambole sorridenti sono sdraiate nel letto, sopra un copriletto rosso. Sulle pareti sono appesi posters di attori famosi: Kareena Kapoor, Sonam Kapoor, Shah Rukh Khan e Salman Khan. Sono i suoi eroi. E poi le foto di case con giardini, uno stagno, pappagalli e scintillanti automobili rosse parcheggiate nel cortile.

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“È troppo tardi anche solo per sognare un posto così” mi dice. “La mia pelle odora già del metallo di queste pareti di lamiera. La mia vita è praticamente incasinata, ma non ho tempo da perdere a pensare alla tristezza. Io e tutte le altre ragazze abbiamo storie tristi, ma siamo forti. Riusciamo a vivere le nostre vite in queste circostanze e non ci arrendiamo. Questa è la nostra lotta quotidiana per sopravvivere e goderci la vita nel miglior modo possibile e le persone dovrebbero sapere che esistiamo. Che siamo esseri umani, non merci da comprare e vendere”.

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