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A PIEDI NUDI SULLA TERRA

Mustafa ogni mattina si sveglia con i primi raggi del sole che, attraversando il tettuccio della sua casa a due ruote, gli accarezzano il viso, giocando a nascondino con la sua pelle rugosa. Si mette in piedi, e mentre si guarda attorno, si arruffa i grigi capelli tra le dita. Dopo il bagno sotto il rubinetto comune fa colazione affondando un biscotto nel “chai” servito in una tazza d’argilla. Comincia qui, ogni mattina, la sua lotta quotidiana. Aspetta i passeggeri richiamandoli col suo sorriso ed agitando il campanello d’alluminio contro le stanghe di legno. Di corsa poi, una volta che il cliente è a bordo, si tuffa nel dedalo delle strade di Calcutta*, esausto tra la folla che ondeggia e lo aggredisce schiacciandolo sulle pareti. I piedi nudi a contatto con l’asfalto rovente. La schiena lucente di sudore e le braccia magre e muscolose bilanciano con maestria l’umile strumento di lavoro.

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Mustafà è uno dei ventimila “hathricha”, gli uomini cavallo, in questa terra distante da tutto. Hanno fatto la loro prima apparizione qui alla fine dell’800 e rappresentano oggi l’ultima forma di trasporto pedestre rimanente al mondo. Complice la crisi economica, che ha reso i trasporti alternativi molto più cari da un lato, e l’eccessivo affollamento di una città che ospita oggi oltre venti milioni di abitanti dall’altro, per i conduttori di risciò si sono concretizzate all’improvviso una serie di nuove opportunità. Lasciano la campagna dove c’è il pane e scelgono la città dove trovano una rupia. Pochi riescono a raggiungerla, pochi quelli che riescono a guadagnarsela, quella rupia, pochi quelli che sopravvivono.

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Sono i risciò men di Calcutta, una terra lontano da tutto. Hanno corpi magrissimi, ossa rivestite di tendini contratti e pelle. Le costole che sporgono dai loro fianchi assomigliano ai ferri che escono dal cemento di queste case che, tutt’attorno, cadono a pezzi. Reggono un sonaglio, stretto con un laccio di cuoio tra le dita, battendolo contro la lunga stanga di legno consunta. Molti di loro dormono di fianco alle loro carrozzine e si scaldano bruciando immondizia pur di riuscire a mettere da parte qualche rupia da spedire alle famiglie rimaste nei villaggi.

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È, questo, un mezzo che è andato con il tempo via via espandendosi, dal momento che è l’unico in grado di garantire trasferimenti in tempi relativamente rapidi. La parola risciò deriva da “jinriki shaw”, che in giapponese significa “veicolo spinto dall’uomo”. Dei ventimila, solo seimila sono in possesso di regolare licenza. Sono costantemente sotto pressione da coloro che vogliono spazzarli via, toglierli dalle strade e far scomparire il loro unico mezzo di sostentamento. E di certo non per proteggere loro ed il loro onore, ma per liberare la città di Calcutta da quello che è divenuto il simbolo scomodo della metropoli. Un’immagine sporca che, probabilmente, infastidisce. E non vi è persona a cui importi che queste persone rimangano senza lavoro. Nessuno si preoccupa delle loro famiglie e di tutte le bocche da sfamare. Se un giorno i risciò a trazione umana dovessero essere definitivamente banditi anche a Calcutta, tutti questi uomini non sarebbero più in grado di sostenere nemmeno se stessi.

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Che fare dunque. Si resta lì, sul marciapiede, ad osservarli imbalsamati o si accetta il loro invito a salire?

Ecco quello che si fa, ci si inventa una meta e si va..   

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Una volta a bordo la sensazione è duplice e controversa.  Da una parte si prova l’orrore nello sfruttare l’immane fatica dell’uomo ai tuoi piedi, che gronda di sudore, mentre le caviglie fini che si muovono in silenzio sull’asfalto arroventato. Dall’altra, invece, si asseconda la felicità nei suoi occhi e la consapevolezza che quella stessa sera riuscirà a sfamare la sua famiglia. Ci si trova in una bolla di sapone, tutto diventa ovattato, si scorgono sorrisi, colori e profumi in strade sommerse dall’immondizia, dove non esistono fognature. Tutto ora scorre più lento come i fiori di loto sulla superficie dell’ Hooghly, quel fiume nero pece che spacca in due la città per darle un lieve respiro. Lento come quei barconi merci che lo attraversano lentamente. Lento come quegli aquiloni che si riflettono a pelo d’ acqua. Tutti i sensi sono all’erta, ma l’olfatto è di sicuro il predominante. Chiudendo gli occhi mi investe l’essenza di gelsomino, d’incenso, di cibi speziati, di bidi e poi di rosa. Ad occhi chiusi si riescono a captare le voci “nascoste”. Quelle silenziose, delicate, difficili da ascoltare e da comprendere. La città ti apre a riflessioni inedite. La città degli sguardi delicati, dei sorrisi timidi, dei gesti gentili e delle voci silenziose. Un silenzio che, però, urla a squarciagola e che, a volte, sovrasta il frastuono di milioni di clacson. La si può amare oppure odiare, ma non esserne indifferenti.

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Sono sempre stati loro, i risciò men, i veri protagonisti per strade di Calcutta. Tutta la vita tra le stanghe in legno, contando solo sulla forza dei loro muscoli e dei piedi nudi che, ogni giorno, percorrono più di trenta chilometri tra le fiamme di quest’ inferno. Questa è la loro maledizione, la loro sofferenza. Non l’imponente Howrah Bridge, non lo splendente Victoria Memorial e nemmeno il Fort William o il Kali Temple. No, il monumento vivente di questa città è rappresentato da questi dignitosi ed infaticabili esseri; sono i loro sguardi, ormai marchiati a fuoco dentro di me.  Loro, insieme ai migliaia di campanelli che risuonano tra le strade di questo incredibile festival dell’esistenza umana chiamata Calcutta.

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